La proposta di riforma del sistema fiscale finalizzata a ridurre le attuali aliquote Irpef ad una sola, valida per tutti i contribuenti, è stata teorizzata più di mezzo secolo fa. Alla luce della situazione economica dell’Italia, sarebbe più opportuno partire da una riforma dell’Irpef.
La “Flat Tax” è una proposta di riforma del sistema fiscale finalizzata a ridurre le attuali aliquote Irpef ad una sola aliquota valida per tutti i contribuenti. La progressività dell’imposta sarebbe garantita dal riconoscimento di detrazioni per i redditi più bassi. Secondo i sostenitori di questo modello fiscale, porterebbe ad una maggiore equità, all’emersione dell’evasione fiscale e, persino, ad un aumento complessivo del gettito per lo Stato. Riportata agli onori della cronaca prima dalla proposta di riforma fiscale del professor Nicola Rossi e dell'”Istituto Bruno Leoni” (con aliquota unica del 25%) e, poi, entrata nei programmi elettorali sia di “Forza Italia” (con aliquota unica del 23%) sia della “Lega Nord” (con aliquota unica del 15%), è stata inserita nel “Contratto per il Governo del cambiamento” Lega-M5S, pur non trattandosi, in quest’ultimo caso, di una “Flat Tax” ma di una “Dual Tax” (due aliquote fisse pari, rispettivamente, al 15% per i redditi fino ad 80.000 euro, ed al 20% per i redditi superiori ad 80.000 euro). Al di là dello scenario politico, quello della “Flat Tax” è un sistema fiscale teorizzato più di mezzo secolo fa. Ma vediamo che cos’è e come funziona la “Flat Tax”.
- Che cos’è la “Flat Tax”?
Ideata per la prima volta dall’economista statunitense Milton Friedman nel 1956, la “Flat Tax” è un sistema fiscale non progressivo per cui si applica una sola aliquota d’imposta che può essere associata anche a detrazioni o deduzioni. In quest’ultimo caso si ha la stessa aliquota legale per tutti, sebbene, di fatto, l’aliquota media divenga crescente al crescere del reddito. In genere tale aliquota viene riferita al reddito delle persone fisiche mentre, in altri casi, può essere applicata anche al reddito delle imprese. Solo in alcuni casi i sistemi di “Flat Tax” sono associati alla “no tax area”, ovvero a delle fasce di reddito – in genere quelle inferiori – che vengono esentate del tutto dalla tassazione. Si tratta di un sistema poco comune nelle economie capitalistiche avanzate dove, nella maggior parte dei casi, i sistemi nazionali di tassazione sono ispirati al modello progressivo, ovvero l’aliquota applicata varia al variare del reddito delle persone fisiche (o degli utili delle aziende), aumentando all’aumentare del reddito stesso.
- Le origini americane della “Flat Tax” e la sua logica.
Dopo Milton Friedman anche altri economisti americani, come Robert Hall ed Alvin Rabushka, sotto la presidenza di George W. Bush, caldeggiarono l’introduzione della “Flat Tax” con un’unica aliquota del 17,5%. Tale decisione avrebbe prodotto benefici, rispetto al precedente sistema progressivo, per un ampio numero di cittadini, stimati intorno ad una percentuale del 62%. All’applicazione di tale aliquota – in base alla proposta dei due economisti – andava associata anche l’eliminazione di tutte le detrazioni, le deduzioni e le esenzioni vigenti, al fine di allargare il più possibile la base imponibile, includendo in essa tutto ciò che contribuiva a determinare il Pil nazionale. Il risultato atteso sarebbe stato quello di ottenere un gettito fiscale uguale ai vecchi sistemi di tassazione progressiva (o anche superiore se si considerano le maggiori possibilità di una tassazione dell’economia sommersa) e di un rafforzamento della democrazia, dal momento che esenzioni, deduzioni e detrazioni, almeno nel sistema americano, erano state introdotte per tutelare gli interessi di specifiche lobby e non quelle di tutta la collettività. Collettività che avrebbe potuto essere tutelata con l’introduzione di una specifica “no tax area” che realizzasse la progressività per deduzione e non per progressività; un metodo, quest’ultimo, che ha come punto debole la penalizzazione del risparmio e degli investimenti. Al di là della specifica proposta americana, occorre ricordare che, a livello teorico, l’applicazione della “Flat Tax” determina – almeno nel breve periodo – un minore gettito fiscale e, quindi, una riduzione delle entrate erariali.
- E per l’Italia, meglio la “Flat Tax” o Riforma dell’Irpef?
Sebbene in Italia si potrebbe sollevare qualche dubbio sulla legittimità costituzionale della “Flat Tax” – in quanto la nostra Costituzione prevede (ex articolo 53) che il sistema tributario sia uniformato a criteri di progressività della tassazione sulla base della capacità contributiva del cittadino – limitatamente alle imprese, la “Flat Tax” già esiste, dal momento che l’Ires (l’imposta che si applica sul reddito delle società di capitali) prevede una sola aliquota pari, oggi, al 24% e, dal 2018, è in vigore l’Iri (l’imposta sul reddito imprenditoriale), che potranno applicare, con la medesima aliquota del 24%, le società di persone e le ditte individuali sugli utili reinvestiti nella propria azienda. Inoltre, piccole imprese e lavoratori autonomi con limiti di ricavi ridotti (che vanno dai 30.000 euro per i professionisti, ai 50.000 euro per gli imprenditori del commercio e dei servizi di alloggio e ristorazione), già oggi applicano una sorta di “Flat Tax” (il cosiddetto “regime forfetario”), che comporta il pagamento di un’unica imposta con aliquota pari al 15%. Sul piano politico la “Flat Tax” è sempre stata una proposta caldeggiata dal centro destra. Silvio Berlusconi fu il primo a proporla nel 1994, al tempo della sua entrata in politica. Il fronte dei sostenitori faceva capo al professor Antonio Martino, sebbene ci fosse sempre un nutrito fronte di oppositori, quegli economisti liberali che si ritrovavano nella politica economica dettata dal professor Giulio Tremonti. Oggi, come detto, la “Flat Tax” è uno dei principali punti del “Programma di Governo” siglato da Lega e Movimento 5 Stelle, da attuarsi nel corso della Legislatura. Pur non trattandosi di una vera e propria “Flat Tax” ma di una “Dual Tax”, questo nuovo regime fiscale potrà, sicuramente, comportare sia una consistente riduzione della pressione fiscale su persone fisiche, partite Iva, imprese e famiglie sia una importante semplificazione del nostro sistema fiscale. Il problema di tale operazione è, però, il costo, stimato in circa 50 miliardi di euro dagli stessi sostenitori, e nel “Contratto di Governo” non è indicata alcuna copertura finanziaria. Alla luce della situazione economica dell’Italia (rapporto debito pubblico/Pil pari al 131,5% nel 2017), forse – in questa prima fase della Legislatura – sarebbe più opportuno partire da una riforma dell’IRPEF che comporta, sicuramente, una minore mancanza di gettito per le casse dello Stato. Una riforma improntata sia alla riduzione del prelievo sia alla semplificazione del tributo, eliminando, in primis, le attuali distorsioni dell’imposta che la rendono, oltre che gravosa, complessa ed iniqua. Un’Irpefche preveda tre aliquote in luogo delle attuali cinque (che, oggi, vanno da quella minima del 23% a quella massima del 43%), con la contestuale rimodulazione degli scaglioni di reddito e l’introduzione di una “no tax area” (“soglia di esenzione” o “soglia di povertà”). L’introduzione di una “no tax area” uguale per tutte le categorie di contribuenti consentirebbe di eliminare le attuali detrazioni da lavoro che determinano ingiustificate disparità di trattamento per cui, oggi, si è considerati “incapienti” se il reddito di lavoro dipendente o da pensione non è superiore ad 8.000 euro; se, invece, si ha un reddito di lavoro autonomo o di piccolo imprenditore, si è considerati “incapienti” se il reddito non è superiore a 4.800 euro. Un sistema fiscale davvero equo determina una “soglia di povertà” uguale per tutti, qualunque sia la categoria reddituale. Un’Irpef riformata in tal senso avrebbe come effetto sia la riduzione del prelievo su lavoratori ed imprese sia la semplicità di imposizione, garantendo, al contempo, la progressività dell’imposta. E le risorse finanziarie necessarie ad attuare la riforma potrebbero essere trovate, in primis, nella riduzione della spesa pubblica improduttiva e nelle maggiori entrate derivanti dalla lotta all’evasione fiscale (oltre 20 miliardi di euro recuperati nel solo 2017). Parte di esse, inoltre, potrebbero essere reperite anche riordinando le agevolazioni fiscali (le cosiddette “tax expenditures”) con l’obiettivo di eliminare quelle non più giustificate dalle esigenze sociali ed economiche o quelle che duplicano programmi di spesa pubblica e salvaguardando quelle di particolare importanza per il tessuto economico e produttivo del Paese. Non resta, quindi, che attendere e vedere quale strada il Governo intende percorrere nel corso della Legislatura per ridurre la pressione fiscale e semplificare il sistema tributario del nostro Paese.
Noi siamo per la riforma dell’Irpef.
Vincenzo De Luca
Responsabile fiscale “Confcommercio-Imprese per l’Italia”
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